Università e industria collaborano sull'ipertensione


Enrico Agabiti-Rosei, Università di Brescia e Presidente della Società Italiana Ipertensione Arteriosa.

La cura dell’ipertensione arteriosa rappresenta sicuramente uno dei grandi progressi degli ultimi decenni della ricerca farmaceutica.
È grazie ad essa che oggi chi ne è colpito vive meglio e più a lungo.
Enrico Agabiti-Rosei è Professore ordinario di medicina interna a Brescia, Presidente della Società Italiana Ipertensione Arteriosa (SIIA). Coordinatore del gruppo di lavoro sulla sperimentazione clinica della commissione mista Farmindustria - CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), nata nel 1998 e che ha consentito lo sviluppo di un’intensa collaborazione tra mondo accademico e industria farmaceutica italiana. Medico e cardiologo, ha partecipato alla messa a punto di numerose terapie per l’ipertensione. “Gli ipertesi in Italia sono circa 18 milioni, il 35 per cento degli abitanti del nostro Paese. Spesso asintomatica, e per questo a volte non diagnosticata, l’ipertensione è una malattia che danneggia il sistema cardiocircolatorio e favorisce la comparsa di infarti e ictus. Eppure in Italia è ancora alta la percentuale di pazienti non adeguatamente trattati (dal 15 al 20 per cento dei casi) perché abbandonano le cure prima del tempo o non vanno dal medico a fare i dovuti controlli”.

Un rischio importante
L’ipertensione arteriosa è una malattia che interessa la popolazione nel suo complesso, ma che affligge in particolar modo gli uomini (in particolare gli over 65), anche se nelle donne a partire dalla menopausa il rischio di ipertensione aumenta notevolmente.
“La pressione alta è un fattore di rischio cardiovascolare tra i più importanti. Gli eventi cardiovascolari, come infarto e ictus, sono preceduti da alterazioni di vari organi bersaglio che possono non determinare sintomi ma che sono la vera causa della malattia. È su questi danni d’organo che bisogna intervenire, impedendo che si sviluppino” spiega Agabiti-Rosei. “La situazione è resa più complessa dal fatto che l’80 per cento degli ipertesi presenta anche altre malattie; possono essere anche, a seconda dei casi, in sovrappeso, fumatori o diabetici. Per questo lo studio della terapia antipertensiva è particolarmente complesso e deve tener conto della compresenza di tutti questi disturbi”. Le usuali raccomandazioni per la prevenzione, come adottare uno stile di vita più sano, includendo l’esercizio fisico quotidiano, prediligere una dieta equilibrata e senza sale, abolire il fumo, combattere sedentarietà e sovrappeso, sono certamente utili, ma nella maggior parte dei casi le cause che contribuiscono allo sviluppo di ipertensione sono molteplici, ambientali ed anche genetiche. “Con i consigli comportamentali miriamo a ritardare il più possibile la comparsa della malattia, quindi a prevenirla. La cura farmacologica, che va prescritta una volta che l’ipertensione si manifesta stabilmente, va seguita tutta la vita. Qui entrano in gioco la capacità del medico di conquistare la fiducia del paziente, che tendenzialmente vorrebbe abbandonare le terapie appena si sente meglio, e quella delle imprese del farmaco, che hanno messo a punto farmaci sempre più efficaci, facili da usare e con pochi effetti collaterali”.

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Nuove sostanze sotto esame
Gran parte del lavoro di ricerca clinica in questo campo – proprio quello di cui si occupa Agabiti-Rosei con grande impegno e passione – ha anche lo scopo di valutare l’efficacia preventiva delle diverse classi di antipertensivi e la loro tollerabilità sul lungo periodo. “Disponiamo già di parecchie classi di farmaci, efficaci e ben tollerati. Il fatto che non ne siano apparsi di nuovi negli ultimissimi anni non significa che non siano in corso degli studi. Attualmente sono in fase di sperimentazione sostanze con tre diversi meccanismi d’azione. Alcune inibiscono il sistema renina-angiotensina-aldosterone (che regola il volume plasmatico e il grado di vasocostrizione periferica, quindi la pressione arteriosa, che dipende direttamente da questi due fattori); altre agiscono sull’endotelio e sul livello di endotelina, sostanza da esso prodotta, che concorre alla regolazione della pressione arteriosa; infine, altre sostanze vanno ad interferire in modo mirato sui meccanismi molecolari dello sviluppo dei danni d’organo, come l’ispessimento della parete del cuore o delle arterie, che sono all’origine dei problemi coronarici, cerebrali e vascolari” spiega Agabiti-Rosei. “I primi nuovi farmaci potrebbero entrare in commercio già entro tre o quattro anni, mentre altri sono in una fase ancora precoce di sperimentazione”.
L’Italia è all’avanguardia quanto a studi e trattamento dell’ipertensione arteriosa. Il Centro per lo studio dell’ipertensione arteriosa e fattori di rischio cardiovascolari di Brescia dove opera Agabiti-Rosei (presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria Spedali Civili) figura nell’elenco dei migliori centri italiani per la cura dell’ipertensione.

Quarant’anni di successi
Risultati e riconoscimenti gratificanti non sono mancati nella sua carriera: abbastanza per toccare con mano quanta strada è stata percorsa negli ultimi quarant’anni.
“Le prime collaborazioni tra centri universitari come il nostro e industrie farmaceutiche risalgono agli anni Sessanta. I primi farmaci sono stati scoperti nei laboratori dell’industria, poi il lavoro è proceduto insieme alle università in tutte le fasi della messa a punto di una nuova cura: preclinica, sperimentale e clinica. Grazie a tutto questo lavoro, oggi sappiamo esattamente cosa significhi, per la salute di una persona, ridurre la pressione arteriosa e anche quali sono i meccanismi sui quali possiamo agire per ottenere il risultato desiderato. L’industria ha reso possibile tale evoluzione pratica mettendo a disposizione farmaci che l’ambiente scientifico universitario ha poi testato.
È stato importante l’apporto di tutti. Per questo si parla molto di collaborazione tra i due attori: università e impresa del farmaco. Nonostante la diversa “missione” dei due soggetti, l’itinerario insieme, pur non sempre facile, ha sempre avuto un obiettivo comune: quello di fare un buon lavoro fin dall’inizio sia negli aspetti tecnici, sia in quelli etici legati a tutte le fasi della creazione di un nuovo farmaco”.

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Il fascino della ricerca
Sembra che il fascino per il mondo della ricerca scientifica nel nostro Paese non sia più quello di una volta, mentre invece sappiamo quanto è importante che le nuove generazioni continuino ad impegnarsi in futuro in questo settore. Cosa ha spinto Agabiti Rosei a scegliere di dedicarsi agli studi scientifici?
“Non vorrei sembrare retorico, ma devo dare una risposta sincera. La motivazione principale che mi ha condotto a concentrare gran parte delle mie energie nel campo della ricerca sperimentale e clinica è un ancestrale, intenso, per certi versi infantile desiderio di comprendere i meccanismi che si celano dentro l’uomo, ed in particolare dentro l’uomo malato.  Le esperienze di questi anni mi hanno portato ad ottenere alcune risposte, ma mi hanno soprattutto convinto della necessità di coniugare strettamente questo desiderio di conoscenza “biologica” alla capacità di stabilire un rapporto di empatia con la persona che soffre. È questo, io ritengo, il grande privilegio dell’essere medico”.

Oggi cosa direbbe ad un giovane per invitarlo a dedicarsi al mondo della ricerca?
“Domanda difficile, questa, in una società che tende a privilegiare aspetti estranei al mondo della ricerca. Non è davvero facile convincere un giovane a dedicare numerosi anni di studio e di sacrifici quotidiani ad un’attività che non assicura il successo personale, la gratificazione economica e sociale. Ma credo che il punto non sia convincere i giovani incerti, quanto piuttosto quello di assicurare a coloro, ancora numerosi, che avvertono dentro di sé la passione per la ricerca scientifica, gli strumenti e le opportunità per coltivarla dignitosamente, e se possibile nel proprio Paese”.

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