Parkinson: in cerca di nuove scoperte


Dalle prime descrizione della malattia alla definizione della “paralisi agitante” di James Parkinson.

La malattia
Una delle prime descrizioni della malattia di Parkinson - patologia degenerativa del sistema nervoso centrale che colpisce le aree cerebrali che coordinano i sistemi del movimento, con gravi conseguenze invalidanti - si deve alla penna di Leonardo da Vinci. Il tremore e le difficoltà di movimento che caratterizzano questo disturbo neurologico erano però ben note fin dall'antichità: in alcuni manuali di medicina indiana la malattia veniva descritta con molta precisione e per curarla si consiglia un consumo abbondante di fagioli e fave, che sono legumi ricchi di levodopa, proprio la sostanza che manca nel cervello dei Parkinsoniani.

Primi studi scientifici
Fu il medico britannico James Parkinson a descrivere, nel 1817, il disturbo in tutte le sue sfaccettature e a chiamarlo “paralisi agitante”. Parkinson descrisse alcuni pazienti che presentavano tremori involontari, diminuzione della forza muscolare, un'andatura particolare a piccoli passi e con tendenza a inclinare il busto in avanti. Il medico ipotizzò anche che la causa della malattia fosse un'alterazione del midollo spinale, ma egli stesso non ne era certo e invitava i colleghi a maggiori approfondimenti.
Dopo questo primo trattato scientifico, molti neurologi e medici si dedicarono allo studio della paralisi agitante. Fu Julius Althaus, un medico tedesco, a chiamare per la prima volta, nel 1877, la malattia “morbo di Parkinson” in onore dello scopritore. Il neurologo francese Jean Marie Charcot, che lavorava all'Università di Parigi, aggiunse ai sintomi noti fino ad allora anche la rigidità muscolare, che è uno degli elementi tipici del disturbo.

La scoperta della dopamina
Nel 1894 fu per la prima volta descritta l'alterazione cerebrale che è causa della malattia: la perdita di cellule nervose pigmentate nella substanzia nigra, un'area del cervello ricca di neuroni che utilizzano come neurotrasmettitore la dopamina. La carenza di dopamina è la causa della malattia.
Solo alla fine degli anni ‘50 il farmacologo svedese Arvid Carlsson identificò la dopamina a livello dello striato, un'area del cervello fondamentale per la regolazione dei movimenti. Fu però Hornykiewicz, neurofarmacologo di Vienna, che pochi anni dopo dimostrò che nello striato dei Parkinsoniani i livelli di dopamina erano marcatamente ridotti rispetto ai soggetti sani. Questa scoperta suggerì ad Hornykiewicz e a Birkmayer, neurologo di Vienna, di utilizzare la levodopa, amminoacido precursore della dopamina, per il trattamento di alcuni pazienti Parkinsoniani. Infatti, tale sostanza si trasforma in dopamina all'interno del cervello. La risposta clinica dei pazienti fu sbalorditiva: i sintomi scomparirono anche se l'effetto fu temporaneo. Si rese quindi necessario ripetere il trattamento per mantenerne i benefici.
Si dovettero però aspettare alcuni anni prima che la levodopa diventasse il farmaco di elezione nella terapia del morbo di Parkinson.

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Le cure farmacologiche
Oltre alla levodopa che, fin dal 1970, rimane il farmaco più usato per la cura del Parkinson, sono oggi disponibili alcune molecole frutto degli sforzi di ricercatori ed imprese del farmaco in grado di prolungarne l'azione rallentandone la degradazione.
Vi sono poi i farmaci dopamino agonisti, che agiscono direttamente sui recettori della dopamina del nucleo striato con un meccanismo analogo alla dopamina.
Gli antagonisti muscarinici sono invece farmaci capaci di contrastare parzialmente il tipico tremore dei Parkinsoniani. Purtroppo i farmaci antiParkinson hanno diversi effetti collaterali che ne rendono complesso l'uso sul lungo periodo. Inoltre, i neuroni cerebrali possono diventare resistenti all'azione della levodopa e non rispondono più alla terapia.
All'approccio farmacologico negli ultimi dieci anni si sono affiancate tecniche chirurgiche particolarmente avanzate (trapianto di cellule fetali).
Al momento attuale le speranze di cura della malattia risiedono negli studi sulle cellule staminali e sui fattori neutrofici, proteine capaci di stimolare il trofismo e la proliferazione neuronale. Su questa nuova frontiera le imprese del farmaco stanno investendo notevoli risorse umane e ingenti finanziamenti con l'obiettivo di ottenere dei trattamenti efficaci capaci, non solo di controllare i sintomi di questa patologia, ma soprattutto di contrastarne lo sviluppo.

Si ringrazia la SIF – Società Italiana di Farmacologia per la collaborazione
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