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Rino Rappuoli, Responsabile mondiale della Ricerca Novartis nel settore dei vaccini
Rino Rappuoli, 53 anni, senese, parla delle sue scoperte nel campo dei vaccini come "buone idee" che ha avuto la fortuna di mettere in pratica. Il suo curriculum vitae si legge come un romanzo. Farmaci e Vita lo ha intervistato per conoscere meglio la sua avventura di ricercatore.
Dottore, la sua avventura parte dalla città del Palio e lì fa ritorno.
Proprio così. Nel 1976 mi sono laureato in scienze biologiche all'Università di Siena, dove mi sono specializzato. Ed è qui che sono stato assunto come ricercatore dalla più importante azienda italiana produttrice di vaccini, la Sclavo. Mi sono recato poi, sempre per la Sclavo, come visiting scientist alla Rockfeller University di New York e alla Harvard Medical School di Boston. Dopo alcuni anni sono diventato direttore della ricerca e quando, nel 1992, la Corporation americana Chiron ha acquisito la Sclavo sono stato nominato a capo della divisione di ricerca europea. Ho ricoperto vari incarichi sia in Italia sia negli Stati Uniti, fino a quando sono diventato Chief Scientific Officer della Corporation. E ora, in seguito all'acquisizione Novartis di Chiron, mi è stata affidata la responsabilità globale della ricerca sui vaccini della farmaceutica svizzera, nell'ambito della nuova divisione Vaccini & Diagnostica.
Com'è organizzata la ricerca in questa divisione?
Questa nuova struttura di Novartis eredita, integra e potenzierà le attività di Chiron su due fronti, il "blood testing" (ovvero gli strumenti e i reagenti per lo screening del sangue) e i vaccini. La ricerca su questi ultimi è stata finora svolta per il 75 per cento a Siena e per il restante 25 per cento in altri siti internazionali. Nel polo toscano lavorano attualmente circa 160 ricercatori e, in tutto, nel settore R&S italiano sono attive circa 400 persone. I kit per testare la sicurezza del sangue e dei suoi derivati, invece, sono stati finora studiati e messi a punto nei laboratori californiani. Specialmente in quest'ultima branca stiamo riscontrando promettenti passi avanti nel campo dei tumori, sia per quanto riguarda nuove molecole inibitrici di chinasi sia nello studio degli anticorpi monoclonali che funzionano da vettori di farmaci antitumorali a scopi terapeutici.
Parliamo dei vaccini. Grazie al Suo contributo, nel 1993 è stato messo in commercio il primo vaccino acellulare contro la pertosse.
Utilizzando le tecniche di DNA ricombinante, il nostro gruppo di lavoro ha sperimentato un vaccino nel quale, in sostanza, non è presente la cellula intera ma solo alcuni elementi purificati del batterio. In quello contro la pertosse ci sono soltanto tre proteine che il batterio stesso produce in laboratorio: sono queste che vengono iniettate nell'organismo e che provocano la reazione del sistema immunitario. Grazie a questa ottimizzazione, il vaccino ha minori effetti collaterali e maggiore efficacia: si è passati, così, da 100-300mila casi l'anno di effetti avversi ad un'incidenza attuale quasi nulla. Anche nel caso della meningite batterica di tipo C, il vaccino è costituito da una molecola della capsula del batterio, coniugata ad una proteina "trasportatrice".
E proprio nel campo delle meningiti, avete messo a punto una tecnica ormai usata nei laboratori di tutto il mondo, la reverse vaccinology. Ci racconti com'è andata.
Tutto è partito da una buona intuizione e da un incontro fortunato. Nonostante i successi conseguiti contro le altre forme di meningiti batteriche, il mio cruccio era quello che niente sembrava poter essere fatto per neutralizzare il meningococco B, che causa la forma più terribile della malattia ed è, purtroppo, molto diffuso. Il problema è rappresentato dalla sua capsula polisaccaridica che è costituita da un carboidrato, l'acido polisialico, diffuso nell'organismo umano. Ciò aveva fino ad allora impedito di sviluppare, come per gli altri casi, un vaccino diretto contro la capsula. In realtà, un vaccino c'è, ma copre l'1 per cento dei casi, perché, prendendo di mira alcune proteine di superficie che sono molto variabili, induce una risposta solo contro i ceppi che sono stati usati per produrre il vaccino stesso. Insomma, la strada individuata era giusta ma serviva un approccio diverso.
E qui entra in gioco l'intuito. Giusto?
La classica "lampadina" si è accesa il giorno in cui ho letto della mappa del genoma del primo batterio pubblicata da Craig Venter. Mi sono precipitato da lui e gli ho proposto di collaborare con noi. Per costruire un vaccino efficace su tutti i ceppi, infatti, serviva decifrare l'intero patrimonio genetico del meningococco. Ed è ciò che abbiamo fatto. Partendo dalla mappa del suo DNA, si è arrivati all'individuazione di alcune proteine con scarsissima variabilità utilizzate per creare il vaccino, che speriamo di mettere presto in commercio.
Quindi, nella reverse vaccinology non si parte dalla coltivazione del batterio in laboratorio, ma dalla sua carta d'identità genetica?
Esatto. Si comincia dallo studio al computer dei geni del batterio, ricavati dalla mappatura del suo DNA. Così si hanno due vantaggi: si impiega molto meno tempo che con la vecchia tecnica e si hanno a disposizione tutte le informazioni possibili sul germe, sulla sua vulnerabilità, sulle molecole che produce e che lo rendono riconoscibile al nostro sistema immunitario: in questo modo si disegna direttamente il vaccino.
Ci sono altri incontri fortunati che hanno segnato la sua carriera professionale?
Sì. Ce n'è uno che mi ha dato una grande soddisfazione per le vite che abbiamo contribuito a salvare. Era la primavera del 2000 e mi trovavo a Sidney come relatore a un congresso sulla meningite B; nel mio intervento, illustravo i progressi che stavamo facendo nella costruzione del vaccino su base genetica. Non appena conclusi la mia relazione, mi avvicinò un funzionario del Ministero della Salute della Nuova Zelanda. Nel Paese da circa dieci anni era in corso una disastrosa epidemia di meningite di tipo B; su cento bambini uno moriva o rimaneva gravemente menomato: "Peccato che manchi ancora tanto tempo per il vostro vaccino"- mi disse. Gli spiegai che lì l'epidemia era causata da un unico ceppo del tipo B. Quindi, si poteva produrre in tempi brevi un vaccino efficace (il cui prototipo era stato già inventato da alcuni ricercatori norvegesi).
Cosa successe poi?
Semplice, il giorno dopo ci incontrammo di nuovo per circa mezz'ora all'aeroporto di Auckland per approfondire la questione. Un paio di mesi più tardi alcuni dirigenti del ministero ci vennero a trovare nei laboratori di Siena e di lì a poco, attraverso un bando pubblico, ci aggiudicammo i 200 milioni di dollari stanziati dal Governo neozelandese per avviare la creazione, i test e la commercializzazione del farmaco. Alla fine del 2004 eravamo pronti: iniziò, così, la vaccinazione di tutta la popolazione da due mesi a due anni d'età. Risultato? Grazie a questa fruttuosa partnership tra pubblico e privato, la malattia oggi in Nuova Zelanda sta scomparendo.
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